Sociologia dell’Ambiente, ripensare il rapporto tra uomo, ambiente e innovazione.
Proprio negli Stati Uniti, motore principale di un modello di sviluppo che comporta un uso intensivo di risorse ambientali, nasce l’interesse per le tematiche ambientali, sia da parte degli studiosi che dell’opinione pubblica.
Nel 1978 per sottolineare l’interrelazione tra società e ambiente Catton e Dunlap riprendono uno schema analitico che risale alla Scuola di Chicago e agli sviluppi dell’ecologia umana degli anni Cinquanta, la teoria dell’eccezionalismo umano e rivisitano anche il concetto di complesso ecologico teorizzando il Nuovo Paradigma Ecologico (NEP) e il nuovo complesso ecologico, decretando la nascita di quella scienza che è la Sociologia dell’ambiente.
Con il NEP, viene sostenuto che sebbene gli uomini possiedano caratteristiche eccezionali, come la cultura e l’ingegno, essi rimangono comunque una fra le molte specie che sono coinvolte in maniera interdipendente nell’ ecosistema globale.
Quindi, le vicende umane non possono essere considerate come dipendenti da fattori esclusivamente sociali e culturali, ma anche da complessi legami di causa-effetto e di retroazione nei confronti della natura. Le azioni umane, quindi, hanno per esito molte conseguenze che possono essere impreviste e dannose per l’ambiente e per la stessa specie umana, che, come le altre specie, vive in un ambiente biofisico finito sul quale l’Uomo non ha un dominio totale, ma che impone anzi potenti limitazioni fisiche e biologiche al suo agire.
Infatti, relativamente ai vincoli imposti alla società umana, si rileva che sebbene l’inventiva degli uomini ed i poteri che ne derivano sembrino consentire un ampliamento temporaneo dei limiti della capacità di carico o la possibilità di superare gli ostacoli posti dalla natura e dalla sua finitezza, tuttavia le leggi ecologiche non possono essere annullate. Proprio questa impossibilità di fondo costituisce da sola il limite alla presunta onnipotenza dell’uomo.
Ne consegue la rivisitazione del complesso ecologico di Duncan, nel quale il “complesso sociale” (entità composta dall’interrelazione tra la popolazione, la tecnologia e l’organizzazione sociale) influenza l’ambiente passivo e oggetto dell’azione. Catton e Dunlap a questo concetto sostituiscono quello di “complesso ecologico”, inteso come un’entità comprendente: il “complesso sociale”, l’ambiente fisico-naturale e l’insieme delle interrelazioni tra i due.
Quindi nel nuovo complesso ecologico gli elementi interrelati non sono più tre, ma quattro: Popolazione, Organizzazione, Tecnologia e Ambiente.
La questione ambientale, quindi, assume un aspetto alquanto paradossale, in quanto i problemi ambientali sono, prima di tutto, problemi sociali.
Si deve a Niklas Luhmann la riflessione più prettamente legata al sentire dell’opinione pubblica mossa dalla paura e che si basa sul concetto per cui l’ambiente non comunica qualche messaggio alla società, la società comunica con se stessa e comunica soprattutto le minacce ambientali che produce, facendo perdere la fiducia nel sapere scientifico e tecnologico in quanto risolutore di rischi, e creando una “società del rischio” vera e propria.
Il futuro è concepito come l’esito di un susseguirsi di biforcazioni estremamente ramificate, su ciascuna delle quali incidono le scelte umane. Lo stesso tentativo di prevenire i rischi ambientali induce all’utilizzazione di ulteriori tecnologie con ulteriori possibilità di rischio.
Il rischio è, dunque, già dentro il “sistema uomo”, dove c’è controllo cresce anche il rischio e fintanto che accadrà questo non si potrà attendere dalla politica una reale difesa dei rischi, perché anche la pretesa di anticipare le conseguenze dell’azione dell’uomo sull’ambiente può diventare dannosa. Ulrich Beck parlava di paradosso dello sviluppo tecnologico, ovvero, che la nostra epoca è quella della causa più piccola possibile per la distruzione più grande possibile, interessante in tal senso è la lettura di “La società del rischio. Verso una seconda modernità” saggio di Beck risalente al 1986 e pubblicato in Italia solo nel 2000.
L’unica strada percorribile è quella della sostenibilità, sia ambientale che sociale, una strada battuta in più occasioni, che ha visto il susseguirsi di trattati internazionali e vertici (da Rio de Janeiro a Johannesburg, passando per Kyoto), un obiettivo per il quale, ad oggi, moltissime persone in tutto il mondo hanno manifestato il loro accordo, ma che purtroppo, andando contro l’economia globalizzata che è in mano ai “potenti del pianeta”, sembra sempre più un concetto bello da usare nei salotti letterari e lontano dalla concretizzazione, in un mondo in cui si combattono ancora guerre per il petrolio.
Lo sviluppo sostenibile in pratica stenta a funzionare, perché è un termine che piace a tutti, ma il cui significato non è ancora chiaro, così Herman E. Daly già nel 2001 diceva che:
“sebbene vi sia un crescente consenso politico sulla desiderabilità di un qualcosa chiamato sviluppo sostenibile, questo termine – sbandierato da molti e persino talvolta istituzionalizzato – è tuttora pericolosamente vago”.
I mass-media ancora oggi giocano un ruolo importante in questo processo di comunicazione tra uomo e ambiente, generando paure e prospettando le soluzioni “politico-economiche” che alle volte celano rischi forse anche maggiori di quelli alla base delle soluzioni stesse. Il concetto di complesso ecologico sembra essere di dominio pubblico eppure i meccanismi che ne regolano il funzionamento rappresentano ancora un mistero.
I rischi collegati al “progresso tecnologico”, nella sua accezione di “modernità sociale” promotrice di stili di vita volti al consumismo, sembrano essere chiari all’opinione pubblica e di riflesso ai nostri rappresentanti politici, ma la “voglia di modernità” è così fascinosamente confezionata dalle multinazionali del largo consumo da far percepire il rischio come di valore inferiore al beneficio derivato.
Siamo arrivati a vivere un momento storico in cui la sperimentazione delle scoperte scientifiche avviene direttamente sul mercato, dove l’essere umano è cavia della sua voglia di scoperta, tristemente cosciente del fatto che l’esperimento potrebbe avere esito negativo.
L’innovazione rurale in questo contesto prende i connotati di promozione di uno sviluppo conservativo che guarda al passato e cerca di evitare rischi anche comunque portando innovazione, non solo innovazione di prodotto ma più propriamente innovazione sociale?
Innovazione può prima di tutto significare agire evitando i rischi collegati alle azioni da intraprendere?
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