Innovazione sempre e comunque? Una riflessione
Siamo sicuri che novità significhi necessariamente miglioria? E poi la novità in questione, è innovativa nel senso pieno del termine o semplicemente è lo spreco di una risorsa all’avanguardia per portare avanti vecchie logiche?
Se lo sono chiesto gli esperti della Stanford Social Innovation Review ed in realtà, da molto ce lo chiediamo anche noi.
Partiamo da quella che è considerata l’innovazione per eccellenza: gli OGM. Vengono proposti dalla Monsanto come unico mezzo per produrre tanto, a basso costo e nutrire tutti (esseri umani ed animali da allevamento). Quello che si sta osservando però è che gli animali nutriti con mangimi OGM ed a base di glifosato, le cosiddette coltivazioni RoundUp Ready, presentano caratteristiche fisiche incredibili: tumori, senza contare la mastite nelle mucche da latte, ascessi al fegato e torsione dello stomaco, gli animali deformi, incapaci di muoversi, presentano anomalie fisiche talmente gravi da sfociare in fenomeni macabri come l’auto-cannibalismo. (Per conoscere altri dati al riguardo, qui).
Non sappiamo ancora quali saranno gli effetti a lungo termine sul corpo umano. Ingeriamo continuamente cibi, più o meno complessi, che contengono tracce di OGM, o che sono stati nutriti con vegetali di questo tipo, e siamo certi che questo non influirà sul nostro DNA? I progressi nel campo scientifico hanno mostrato che gli organismi possono condividere i loro geni, ma, contrariamente a quello che si pensava fino a pochi anni fa, questo scambio può avvenire anche tra specie diverse.
Dal punto di vista economico, l’utilizzo di sementi brevettate sta causando non pochi problemi ai paesi produttori, a partire dai coltivatori di cotone indiani che hanno avuto ingenti perdite, alle monocolture spinte, fino ad arrivare alla scoperta che i frutti provenienti da piante OGM, danno sementi sterili (provate ad interrare i semi dei pomodori che comprate al banco frutta, forse germoglieranno, ma sicuramente non spunterà nessun pomodoro).
Cosa succede in una realtà come l’Italia, ricchissima dal punto di vista enogastronomico ed ambientalistico? In che modo si applica l’idea di innovare, cercando però di salvaguardare l’aspetto della ecosostenibilità e quello della salubrità di un cibo?
Da un lato, accade quello che anche gli osservatori di Stanford hanno rilevato nella Silicon Valley: nascono imprese che propongono prodotti pronti bio, vegetariani, vegani (vedi Vegusto, o Bioappetì, o ancora Vantastic), che emulano i prodotti “crudeli” come formaggio, salumi, pesce, nel sapore o almeno visivamente. Si usano materie prime di qualità per creare prodotti molto complessi e trattati. Queste imprese però al momento rappresentano ancora una nicchia e non sembrano minacciare il mercato mainstream.
E soprattutto, tutti i processi industriali necessari per produrre questi cibi, non sono comunque un peso per il nostro pianeta? Sicuramente anche questi processi hanno un impatto ambientale, ma non sono neanche paragonabili a quelli dell’industria della carne. Questi prodotti hanno il valore intrinseco dell’innovazione ma al momento non sembrano avere il potere rivoluzionario che ci si potrebbe aspettare.
Dall’altro lato, accade qualcosa di più profondo: nascono movimenti che potremmo definire di resistenza, di difesa delle sementi antiche, corsi per insegnare il riconoscimento di erbe spontanee, o a fare il pane, consorzi ufficiosi di allevatori e coltivatori che si sostengono, si scambiano i prodotti, le tecniche, i semi. Agricoltori che si scoprono scienziati ed autonomamente, autofinanziano ricerche sulle varietà di cereali, ortaggi, legumi, tipiche del nostro territorio, non solo per conservarle ma anche per scoprire se possono competere con la resa degli OGM.
Questo sistema pensate possa influire sul mercato?
Conoscete realtà che portano avanti un discorso di difesa della salute e della biodiversità?