Ci ha lasciati il grande maestro del Bosco e del Catuozzo, Zi Peppe o’ Scesciuo
di Michele Sica
In questo freddo inverno nevoso, una manna per i boschi, per le fonti, per il grano e per tutti noi, un grande maestro che ci ha iniziato alla dura arte del Catuozzo (l’antico metodo della Carbonaia), Zi Peppe o Scesciuo al secolo Giuseppe Erra, ci ha lasciato stanotte, come un vecchio faggio maestoso che d’Inverno crolla sotto i pesanti venti di maestrale.
Una, apparentemente, folle idea quella di riprendere l’antica arte dei boscaioli, e di reinterpretarla in chiave moderna, come metafora dell’unica magia che riesce a trasformare il piombo in oro, gli scarti del bosco in energia: il duro lavoro. E Zi Peppe ci concesse l’onore della sua guida, nel 2012 e ancora nel 2013 allora già ottantacinquenne, e lo ha fatto chiedendoci come unica iniziazione la nostra fame di vita autentica.
Durante queste intense settimane di Agosto, alla periferia dell’impero, a Calvanico nella Valle degli antichi Mulini di Emanuele Merola, nel cuore Regionale dei Monti Picentini, Zi Peppe, con la generosità tipica dei nostri nonni, insieme ad una platea di giovani che venivano da tutto il mondo, indicò a tutti noi che eravamo sulla via giusta aprendoci una strada, a volte tortuosa e difficile, che ci ha regalato momenti di crescita che hanno segnato profondamente le nostre biografie.
Onore a te Grande Maestro del Bosco! Ti dedico le parole scritte in un onore di un tuo vecchio compagno di vita e di fatica, che mi ha ispirato (e che ti convinse a dirci si) quando tutta questa storia iniziò: La rivoluzione dell’aria e del fuoco ovvero Gli alberi non muoiono mai!
Un boscaiolo è sempre rivoluzionario, imprescindibilmente. Non è un politico, non può permetterselo. Egli deve decidere e agire con vigorosa forza. Sceglie quali alberi cadranno, e pensa al bosco che dovrà rinascere, le “matricine” che resteranno a dar nuova vita. Egli le guarda, le scorre con ruvida mano e riceve il loro benestare, la loro benedizione.
Un boscaiolo non è la sua ascia, egli è l’albero che cade, è lo sforzo immane di sopportare la perdita e da quella far nascere nuova vita, forti assi, talami dentro cui fiorisce il mistero, tavolacci d’osterie su cui bestemmiare, pesanti porte di cattedrali che stridono sui cardini d’incenso, madie profonde in cui si rinnova il miracolo, gozzi e navi che affamano e saziano la fame di conoscenza dei nuovi e vecchi Ulisse, e travi e pali che sostengono l’ingegnoso sforzo di uomini-formiche che innalzano città-formicaio.
Un boscaiolo non vive di soluzioni già date, non percorre la via meno impervia, i sentieri sicuri e già battuti. Sempre egli si graffia dello sforzo d’inerpicarsi, di esplorare, di imparare nuove vie verso il cielo, di immaginare quel vuoto pieno della vetta che lo sovrasta e lo libera dall’ansia buia della valle, piccolo uomo che sfida i giganti e li assoggetta alla sua lama, senza maledirli. Ne farà carbone e non per cancellarne la memoria e i fasti, ma per rendere loro la metamorfosi tanto agognata. Giganti del cielo ora pietra nera, trasfigurati e redenti da quel fuoco così sapientemente ricacciato e domato da un boscaiolo carbonaio che in un vulcano divino riproduce il mistero della trasformazione. Se l’acqua era vita evigor delle possenti querce, dei nobili faggi, dei fastosi olmi, dei lussuriosi carpini, dei timidi aceri, ora passata la porta dell’estremo calore, rimane di loro l’essenza più vera, nero carbonio, madre di nostra madre, linfa vitale, vita senz’acqua, forza che genera ma non grava.
Un boscaiolo è pronto a sacrificare anche ciò che ha di più prezioso. Il giovane vigore è lontano dalle pudiche mogli bramate, focolari di una casa buia dove riecheggiano vagiti così a lungo attesi. Egli trascorre un tempo interminabile in dirupati pagliai, nelle alti valli, a vegliare la montagna di fumo che ha eretto per purificare gli alberi in carbone. Con sé piccoli otri in cui il rozzo vino antico viene razionato e una spartana bisaccia dove ormai solo pochi tuberi affamano le forti braccia. Un boscaiolo solo, sporco e stanco ma capace di rendere quella accolta di abitanti “di laggiù”, una civiltà. Una civiltà nata dal fuoco del legno, da un aratro di legno, da una ruota di legno, da un trono di legno, da una croce di legno, dalla conoscenza stampata sulla carne del legno.
Un boscaiolo non è un politico. La sua rude onestà è il pane divorato dalla politica, la sua indefessa forza è il trono su cui comodamente siede la politica, il suo sapiente ignorare è l’aria che respira e consuma la politica. Senza un boscaiolo e la sua rivoluzione dell’aria e del fuoco la politica muore, ed è già morta, e non rinasce. Ma gli alberi non muoiono mai. E ci saranno nuovi boscaioli a dar loro vita, a riprendere la rivoluzione che attende al varco coloro che non hanno piantato profonde e salde le loro radici, alle sterpaglie e ai rovi che hanno invaso questo bosco, che hanno soffocato i giovani alberi che reclamano l’alto cielo, il respiro profondo, la carezza della scure tra le mani di un giusto.
In memoria di mio nonno, Michele Sica, Boscaiolo
-JW